Nell'ambito del Festival Vicenza in Lirica edizione 2016, nelle Gallerie d'Italia di Palazzo Leoni Montanari va in scena il grande capolavoro di Giambattista Pergolesi
Ci sono musiche dai tratti dirompenti, come A love supreme di John Coltrane od Eleanor Rigby dei Beatles che – musicalmente parlando - al loro apparire cambiano d'un tratto le carte in tavola. Magari non mutano il corso della storia...ma riescono comunque a spostarlo un pochino più in là.
Proprio come accadde con La serva padrona di Pergolesi: quando, dopo essere stata ascoltata a mo' di intermezzo nei due intervalli de Il prigionier superbo, a Napoli nell'agosto del 1733, arrivò anche sulle scene parigine. Si era in un altro agosto, quello del 1752, a Parigi; e la compagnia dell'impresario pesarese Eustachio Bambini, specializzata in lavori comici, portò in scena all'Académie Royale questi due brevi atti del compositore jesino, scritti per un mimo e due interpreti che necessitano di buona verve recitativa, ma non di stellari virtù canore. Si era nel bel mezzo dell'arroventata polemica tra due opposte fazioni, quella degli ortodossi difensori dell'aulica tragédie lyrique, genere inaugurato da Lully e portato ai fasti maggiori da Rameau, e quella dei philosophes illuministi, assertori della necessità di innovare il teatro musicale francese infondendovi freschezza e maggiore spontaneità. In termini elementari, si opponevano i fautori del predominio sulla musica dell'aulica recitazione sullo stile di Corneille e Racine, proprio della tragédie en musique; e dall'altra, quelli d'una propensione verso forme più aperte e naturali, e verso una più pura linea di canto. Guarda caso, le caratteristiche tipiche del melodramma all'italiana, ma in specie dell'opera buffa.
In questo bellicoso contesto scoppiò l'inatteso successo de La serva padrona, quella stessa operina che pure a Parigi era passata già più volte negli anni precedenti, senza tuttavia destare particolare interesse. E fu una deflagrazione imprevedibile, che parve sparigliare anche qui le carte, fornendo nuova esca al fuoco dei philosophes. Un avvenimento che diede insomma avvio a quell'aspra polemica culturale che prese poi il nome di “Querelle des Bouffons”, con tutto il suo fiorire di feroci pamphlets da una schiera e dall'altra. «Ecco come deve essere l'opera oggi!», sostenevano infervorati gli intellettuali raccolti intorno all'Encyclopédie di Diderot e D'Alembert; e neanche tre mesi dopo Jean Jacques Rousseau – cui non faceva difetto la musicalità – ancor prima di pubblicare la celebre Lettre sur la musique française e la meno nota Lettre d'un symphoniste de l'Académie, si adoperò subito in un esperimento pratico: compose e mise in scena cioè l'equipollente gallico della Serva padrona, il pastorale intrattenimento rococò de Le devin du village.
Le polemiche piano piano si spensero, anche perché un paio d'anni dopo lo splendido Castor et Pollux di Rameau parve mettere tutti d'accordo, progressisti e conservatori. A noi resta in eredità quel piccolo, prezioso capolavoro di sintesi drammaturgica e di sottile penetrazione psicologica – il libretto del Federico è in questo senso agile e perfetto - intriso di felicissima e spontanea inventiva melodica che è appunto La serva padrona: presentata ora anche al pubblico del festival “Vicenza in lirica” edizione 2016, nel barocco cortile di Palazzo Leoni Montanari.
Messa in scena ovviamente molto essenziale, come impone il luogo ma pure la trama stessa: un tavolo ben apparecchiato, una sedia, qualche poltrona dove Uberto trova rifugio dalle intemerate di Serpina (nome quant'altri appropriato), ed indosso bei costumi settecenteschi. Un piccolo demi stage dalla svelta regia, con piccoli tocchi di schiettezza – vedi Uberto che accoglie e sistema per bene gli strumentisti - firmato da Andrea Castello, direttore artistico della manifestazione vicentina, presente qui anche nella parte mimata di Vespone.
All'opera due interpreti veramente giovanissimi, vale a dire il soprano trevigiano Ilenia Tosatto e il basso beneventano Davide Giangregorio. La prima con la sua Serpina maliziosa ed ammiccante offre una deliziosa figurina di porcellana bisquit, ed una vocalità fiorente nel chiaro fraseggio, e già abbastanza padrona delle colorature; in più un timbro tagliente ed elegante al tempo stesso che resta favorevolmente impresso. Anche Davide Giangregorio, quanto a capacità di fraseggio ed espressività mette in mostra davvero buone doti: convinto della parte ed umorale quanto basta, non gigioneggia e non calca troppo sulla caricatura – il suo è un Uberto forse verso la mezza età, non di certo un vecchio rimbambito – ha bel colore e buon spessore di voce, padroneggia bene la tessitura – anche i bassi, bene - e fa mostra di spontanea musicalità. Volendo, a fine settembre lo potrete sentire alla Fenice quale Gaudenzio ne Il signor Bruschino.
A fungere da adeguato sostegno di questa affiatata coppia d'interpreti, sta l'Ensamble Corte Armonica formato da Pietro Battistoni e Annalisa Virzì (violini), Elena Gelmi (viola), Edvige Forlanelli (violoncello), Matteo Zabadnech (contrabbasso); concertatore e maestro al cembalo Alberto Maron. E' una formazione strumentale non proprio ricca di timbri e di colori, per nulla sontuosa vista la sua francescana esiguità; ma nondimeno ci è sembrata fluida e precisa. Con il suggerimento di utilizzare magari, la prossima volta, un clavicembalo più sonoro e presente. Maron era impegnato, come detto, anche in qualità di inappuntabile concertatore, offrendo un'esecuzione incalzante, variegata, e sopra tutto integrale: con i suoi da capo, le sue ripetizioni, e per esteso entrambi i duetti finali.